Museo Mar 'e Pontis
Il museo della Peschiera Mar 'e Pontis.
Ultima modifica 13 settembre 2024
Il museo si trova all'interno della Peschiera Mar 'e Pontis e racchiude il racconto della storia, tradizione e cultura di un compendio ittico di grande valenza storica e di forte attrazione turistica.
Audio guide
Cenni storici sullo stagno di Mar 'e Pontis
Pasraxius
Tzaracus de pischera
Sciaigoteris
Poigeris
Bogheris
Paramitaius
La rivolta
Mar 'e Pontis
Mar ‘e Pontis
Davvero vasto lo stagno di Mar ‘e Pontis , un vero e proprio mare, come da sempre viene definito dalle genti locali per la sua grande estensione. A parte la laguna di Mistras, infatti, si estende per circa 2.350 ettari, comprese tutte le paludi che lo abbracciano e ne fanno una delle zone umide più estese e importanti d’Europa, in gran parte tutelate dalla Convenzione di Ramsar e dalle numerose norme di tutela nazionali e internazionali.
Mar ‘e Pontis , con le sue acque più o meno salmastre, pronte ad assumere repentine e diverse sfumature di colore in base agli umori del cielo, nel corso dei secoli e dei millenni, ha sicuramente cambiato più volte aspetto sia sotto il profilo idrografico che morfologico e oggi occupa circa un quinto del territorio di Cabras, vasto oltre 102 kmq. Occorre tuttavia non dimenticare che parte dell’ampio bacino settentrionale della laguna appartiene amministrativamente al Comune di Riola Sardo.
Volendo tracciare una linea immaginaria che ne delimiti i confini si può partire da Punta su Meriagu ad ovest, ai piedi della collina del Sinis, per arrivare a Punta ‘e colletu (Sa pastura ‘e colletu) a est del compendio ittico, dove un lungo tratto di stradello peristagnale ne segna i limiti con il comune di Nurachi.
Basta un po’ di fantasia e lo stagno di Mar ‘e Pontis , probabilmente più conosciuto come Stagno di Cabras, visto dall’alto somiglia ad un’anatra col becco rivolto al Golfo di Oristano, e il Golfo di Oristano, che si affaccia sul Mar di Sardegna, rappresenta un elemento fondamentale di vita per le sue acque.
Una fitta rete di canali mette in comunicazione Mar ‘e Pontis col golfo e ciò contribuisce da sempre, attraverso l’alternanza dei flussi di alta e bassa marea, a regolarne i processi di ossigenazione idrica, garantendo l’abbondanza e la bontà dei prodotti ittici nel compendio. Anche il rio Mar ‘e Foghe, a nord dello stagno, assume un ruolo di fondamentale importanza a tutela delle sue biodiversità, fungendo da vero e proprio cordone ombelicale tra le acque dello stagno stesso e tutto il bacino imbrifero del Montiferru.
Da sempre stagno pescosissimo quello di Mar ‘e Pontis , citato persino da autorevoli fonti latine. E non a caso la presenza di antichissimi siti archeologici, risalenti al Neolitico, come quelli di Cucuru is arrius, Conca Illonis e quasi certamente altri in attesa di essere riportati alla luce, attestano la presenza antropica nella zona nel lontano passato e confermano che le vicine acque dello stagno e i terreni fertili circostanti potevano assicurare alle popolazioni di allora una ricca fonte di sostentamento.
È innegabile che tutti coloro che si sono avvicendati nel corso dei millenni in questa regione importantissima della Sardegna hanno tratto vantaggio dalla presenza di questo enorme specchio d’acqua, mutato per forma ed estensione nel tempo, ma sempre in grado di offrire importanti risorse alimentari ed economiche.
Cenni storici sullo Stagno di Mar ‘e Pontis
Il primo documento che cita lo Stagno di Mar ‘e Pontis risale al 1237. Si tratta di uno scritto in cui Pietro II, giudice di Arborea, conferma le donazioni fatte dai suoi genitori alla chiesa e monastero di Santa Maria di Bonarcado, accordando ai monaci libertà di pesca nello stagno.
Successivamente lo stagno e la peschiera passarono alla Corona di Spagna e re Ferdinando d’Aragona ne vietò la cessione, l’alienazione e il pegno.
Il 6 luglio 1652, Filippo IV di Castiglia, in cambio di un generoso prestito, cedette in anticresi (pegno) a Geronimo Vivaldi, banchiere genovese, lo stagno di Santa Giusta e quello di Mar ‘e Pontis con la sua peschiera, concedendogli il godimento dei frutti, sia ad estinzione degli interessi maturati, sia in conto dei capitali impiegati.
Il 26 giugno del 1838, Carlo Alberto di Savoia rinunciò al riscatto dell’anticresi e tutto ciò che i Vivaldi avevano ricevuto in pegno diventò di loro proprietà. Da quel momento, lo stagno veniva dato in appalto a facoltosi cittadini oristanesi in cambio di trentamila scudi annui da versare al Marchese Vivaldi-Pasqua.
Il 23 luglio 1853, per la somma di un milione e duecento venticinquemila lire nuove, i Vivaldi-Pasqua vendettero lo stagno di Mar ‘e Pontis al Cav. Salvatore Carta di Oristano.
Da quel momento e fino agli anni Sessanta del Novecento, l’organizzazione del complesso sistema di pesca nelle acque lagunari risponderà ad uno schema di stampo feudale che garantirà notevoli profitti, derivanti da una strutturazione gerarchica di mansioni e compiti, distribuiti in modo eterogeneo in rapporto all’importanza dei ruoli rivestiti.
Solo dopo la morte del Cav. Carta, sia lo stagno che le peschiere passarono agli eredi: le famiglie Carta-Pabis, Corrias, Boi e Campus, che perpetuarono nel tempo lo stesso sistema gestionale.
A seguito della legge regionale n° 39 del 1956, che dichiarò aboliti i diritti feudali sulle acque interne, prese avvio un percorso, non privo di tensioni e momenti di scontro, anche molto accesi, grazie ai quali lo Stagno di Mar ‘e Pontis, diventato nel frattempo di proprietà regionale, verrà affidato a un consorzio di cooperative di pescatori, che ancora oggi lo conducono.
Pasraxius
Il cuore pulsante, il centro operativo più importante di tutto il compendio ittico cabrarese era Sa pischera ‘e Mar ‘e Pontis, ovvero Pischera manna, dove tutto il processo produttivo della laguna trovava naturalmente la sua giusta collocazione.
È in peschiera che si concludeva il redditizio ciclo di prelievo del prodotto ittico che, spinto dall’istinto naturale della riproduzione, veniva intercettato mentre tentava di riguadagnare il mare aperto.
Ed è proprio in peschiera che la figura de is pasraxius (pesatori) assumeva di fatto il ruolo invidiabile che apparteneva loro, dopo che su meri ‘e pischera (il padrone della peschiera) aveva deliberatamente scelto di riporre in essi la massima fiducia nel delicato momento della pesatura di tutto il pescato. E così doveva essere, perché si trattava di un compito di alta responsabilità. Certamente la scelta era dettata dall’alto livello di professionalità e dall’acutezza d’ingegno degli uomini prescelti. Erano is pasraxius che curavano, tra l’altro, gli aspetti gestionali della vendita del pescato; erano loro che si attivavano per consegnare le distinte e il ricavato di tali vendite; erano loro che si preoccupavano di curare tutti gli interventi di manutenzione della peschiera o il completo rifacimento della stessa ed erano sempre loro i responsabili dell’organizzazione di tutte le attività di cattura nelle peschiere e nello stagno.
Non c’è bisogno di commenti, si trattava di figure tanto importanti, quanto insostituibili che meritavano il totale rispetto di tutti gli uomini, dei collaboratori e delle famiglie che gravitavano intorno al mondo della pesca e non solo.
Erano due is pasraxius de Pontis, che si alternavano settimanalmente nello svolgimento delle loro mansioni, operando ora in peschiera, ora a Scaiu, laddove insomma approdavano le imbarcazioni, a ridosso della chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta, a conclusione delle attività di pesca vagantiva nelle acque dello stagno.
Altri due pasraxius, importanti, ma con ruoli da comprimari sotto il profilo gerarchico, probabili successori dei precedenti, erano i coordinatori e i responsabili allo stesso tempo della peschiera di Sa Madrini e di Pischeredda.
Nella prima si controllava il flusso d’ingresso del novellame nelle acque dello stagno, attraverso i canali di rifornimento. Nella seconda, invece, mediante uno sbarramento di canne e sostegni tutori di rinforzo infissi sul fondale, si impediva che i pesci risalissero le acque del rio Mar ‘e Foghe.
Infine su potaiu, figura sicuramente meno in vista rispetto alle quattro precedenti, ma pur sempre gravato della responsabilità di Su Potu, una importantissima area dello stagno destinata a tutela integrale, segnalata da una lunga fila di pali posizionati ad una certa distanza l’uno dall’altro, dove tutte le attività di pesca erano interdette, tranne in casi particolari. Un modo come un altro per affermare, semmai ce ne fosse bisogno, che in tutto il compendio ittico nulla veniva lasciato al caso, ma era scientificamente organizzato nei minimi dettagli.
Tzaracus de pischera
Seguendo necessariamente l’imprescindibile ordine gerarchico di un tempo, alla base dell’organizzazione di tutta l’attività di pesca nello stagno, i tzaracus de pischera si posizionavano su un gradino inferiore a quello dei pasraxius.
Tzaracu, in sardo, sta per servo, ma ciò non deve indurre in errore, perché l’appellativo non va inteso con quel significato negativo sotto il profilo lessicale che generalmente gli attribuiamo.
Va invece interpretato come uomo servizievole. E infatti, i sei tzaracus, perché in sei venivano nominati, erano uomini sempre disponibili a svolgere senza commenti le più svariate mansioni, convenienti alle esigenze della peschiera. Pertanto, erano scelti in rapporto alle proprie esperienze e competenze professionali acquisite, ma anche in relazione alla loro integrità fisica e soprattutto morale. Settimanalmente rivestivano ruoli diversi alternandosi come antzianu de potu, vice antzianu de potu, antzianu de pischera, vice antzianu de pischera, madrinaiu (addetto alla peschiera di Sa Madrini) e persino coxi(n)eri (cuoco). E ciascuno di loro cercava di distinguersi al massimo nell’espletamento delle proprie funzioni, anche perché l’obiettivo principale per essi era quello di progredire nella scala gerarchica della peschiera per diventare pasraxiu.
Il ruolo di tzaracu comportava il rispetto di disposizioni rigidissime, limitative anche della libertà personale: un vero e proprio retaggio feudale che si tramandava da secoli e si completava persino con la rinuncia ad incontrare per tempi lunghi i propri familiari, parenti e amici, in quel mondo inviolabile che era quello delle peschiere.
C’erano, comunque, delle deroghe a tale rigido sistema di regole, e ciò avveniva quando anche per i tzaracus si presentava l’occasione di avvicinarsi a tutti liberamente in prossimità di quei luoghi quasi inaccessibili. Succedeva in particolare il 22 gennaio di ogni anno, giorno in cui si festeggiava San Vincenzo. In quell’occasione, la chiesetta omonima e tutto il vasto piazzale antistante, forse non a caso al di qua dei canali che separavano l’isolotto della Peschiera Pontis dal resto del territorio, si affollavano. L’intento per tutti era quello di ascoltare messa in religioso silenzio e festeggiare successivamente, con canti e balli, il santo patrono delle peschiere. Naturalmente, non poteva mancare un pranzo eccezionale, sicuramente a base di pesce, offerto dai meris de pischera e cucinato a dovere dai tzaracus.
Anche i lavori di manutenzione della peschiera davano modo a pasraxius, tzaracus e piscadoris di disporre di momenti d’incontro conviviali ai quali, talvolta, erano presenti i massimi vertici di Mar ‘e Pontis , ovvero i proprietari dello stagno di Cabras.
Il duro, lungo e faticoso lavoro di sostituzione delle canne (sa scarada e s’arrasadura), dei pali e dei tavolati logori e i costanti interventi manuali, erano lavori fisicamente molto impegnativi. Lo erano pure tutte le azioni atte a liberare i corsi d’acqua dalle fanghiglie accumulatesi in eccesso lungo i canali e all’interno dei lavorieri. Si trattava di provvedimenti che non potevano essere rimandati e quindi da effettuare puntualmente, anche dietro compenso, pur di assicurare un efficiente funzionamento di tutta la struttura.
Visto l’impegno e la durata degli interventi, i pescatori chiamati a svolgere tali operazioni, poigeris e bogheris, potevano trovare pernottamento in s’omu ecia (la casa vecchia), uno stabile costruito proprio per il loro temporaneo soggiorno in peschiera a due passi da un’altra struttura ben più importante, su poatziu (il palazzo), l’unico stabile presente in loco che disponeva di un piano rialzato e di una terrazza dalla quale si dominava tutto il territorio circostante.
Era quella, comunque, una buona occasione per avvicinare direttamente i pescatori ai pasraxius e ai tzaracus; un’opportunità per rivelare loro, in forma riservata, qualche problema personale di lavoro, al fine di trovare la soluzione più adeguata al caso.
Sciaigoteris
Questa categoria fu voluta intorno agli Venti del Novecento da Don Peppino Carta, fratello del più noto Don Efisio, come riconoscimento per alcuni anziani poigeris che si erano particolarmente distinti, anche se non al punto tale da essere promossi a tzaracus. Si trattava di sei pescatori anziani, i quali godevano di una posizione vantaggiosa, dal momento che, tolta la percentuale dell’Azienda, il ricavato veniva diviso in sei sole parti.
Gli sciaigoteris si servivano di una rete a strascico, sa sciaiga, simile a quella usata dai poigeris, e di una barca, detta braca de sa sciaiga, non troppo diversa da quelle di poigeris e bogheris.
Tale categoria scomparve definitivamente alla fine degli anni Cinquanta del Novecento.
Poigeris
La pesca vagantiva vera e propria nelle acque dello stagno veniva affidata a due specifiche categorie di pescatori, poigeris e bogheris, che ne facevano richiesta e che, pertanto, erano parte integrante dell’organizzazione gerarchica. La direzione dell’Azienda (soprattutto meris e pasraxius) stabiliva se accogliere o meno tale richiesta in base a “requisiti fisici, professionali e di moralità”.
D’età non inferiore ai ventun anni o superiore ai settanta, i poigeris (da poigiu, un tipo di rete usata per la pesca) costituivano un gruppo di circa venti pescatori cui spettava il diritto di pescare tutto l’anno, previo annuale rinnovo del contratto con l’Azienda, che concedeva loro due barche di sua proprietà, del tipo denominato schifu o braca de poigiu, da utilizzare durante la pesca.
Ciascuna delle imbarcazioni ospitava dieci pescatori, otto dei quali occupavano i quattro sedili presenti, mentre gli altri due, scelti dall’Azienda, prendevano posto rispettivamente a poppa (su puperi, il capobarca) e a prua (su cumandadori, il capopesca). Quest’ultimo aveva il compito di coordinare il lavoro, sorvegliare il materiale fornito dall’Azienda o riferire su eventuali infrazioni.
Oltre all’attività nello stagno, a richiesta dell’Azienda e dietro compenso giornaliero, i poigeris potevano partecipare al prelievo dei pesci dai lavorieri nella peschiera principale, prestare la loro opera, insieme ai bogheris, durante i lavori di manutenzione nella stessa e collaborare con le guardie giurate (arrolliadoris) pagate dai padroni dello stagno e addette al controllo del compendio.
Bogheris
I più numerosi bogheris (da bogai, vogare), d’età non inferiore ai ventun anni o superiore ai sessantacinque, iniziavano la pesca i primi di settembre per concluderla il 30 aprile successivo.
Lavoravano a bordo di imbarcazioni più piccole rispetto a quelle usate dai poigeris, dette bracas pranas (barche piatte) o bracas de is cullegas. Infatti, tali imbarcazioni erano suddivise in cullegas, dieci gruppi di quattro barche che lavoravano di concerto utilizzando particolari tipi di reti: arretza impillàda a to(n)us e a ùngiua, a un solo telo, lunghe circa 30/35 metri.
Nei mesi da maggio ad agosto, essendo loro interdetta qualsiasi attività di pesca, i bogheris potevano trovare impiego presso imbarcazioni che pescavano all’interno del Golfo di Oristano, in mare aperto, oppure guadagnarsi la giornata lavorando come braccianti agricoli nelle campagne del paese o dedicarsi eventualmente anche alla pesca dei frutti di mare.
Entrambe le categorie erano organizzate in sei cooperative, cui spettava il 60% del pescato, essendo il restante 40% prelevato e venduto giornalmente dall’Azienda.
Paramitaius
Alla base di tutto il complesso sistema organizzativo piramidale di stampo feudale stavano is paramitaius (palamitai), che generalmente erano considerati i pescatori più poveri dello stagno, sebbene riuscissero anch’essi, chi più, chi meno, a garantire alle loro famiglie il necessario per vivere dignitosamente. Pescavano in genere con su paramitu (palamito). Si trattava di una lunghissima lenza madre, sa cade(n)a, anticamente di cotone poi di nylon, spesso lunga oltre un chilometro, alla quale erano legati centinaia di bugais (braccioli) con altrettanti ami (originariamente ottenuti con la spina di Cristo, Eufhorbia Milii, e poi metallici) a loro annodati nella parte terminale, distanti circa un metro (mesu passa o u(n)a ‘etada) uno dall’altro, destinati alla pesca delle anguille. L’intero palamito, da utilizzare quotidianamente, in determinati periodi dell’anno, veniva preparato da abili mani che lo riponevano ordinatamente all’interno di un cesto non molto grande, su cadi(n)eddu, pronto per essere innescato e calato all’imbrunire o durante il primo pomeriggio, a volte in piena notte, nelle acque poco profonde dello stagno (mollai paramitu), per salparlo (srapai paramitu) l’indomani al sorgere del sole (ponendi chinta). Non era raro che pescate generose premiassero l’intenso lavoro messo in campo dai pescatori con la collaborazione dell’intera famiglia. Soprattutto le donne, mogli, figlie e sorelle, si attivavano nel riordino dell’attrezzo. Dopo l’utilizzo, si rendeva infatti necessario sostituire gli ami persi (cambiai gamus), dipanare il palamito dai grovigli (stirai su paramitu) o rinnovarlo del tutto, quando, ormai logoro, diventava inutilizzabile. I figli maschi, invece, liberi quasi sempre da altri impegni lavorativi o raramente scolastici, si preoccupavano di trovare nuova esca (lombrichi, larve di insetti, chiocciole, lumache, gamberetti, ventrame di carpe e in via del tutto eccezionale avanzi di interiora di altri animali) da calare nelle acque dello stagno.
Talvolta l’esca stessa era introvabile e diventava preziosa. Tra i poveri pescatori salivano, pertanto, le ansie e le preoccupazioni, e allora si rendeva necessario percorrere lunghe distanze, spesso a piedi, per poterne fare una buona scorta. Venivano battuti persino i territori vicini alle gore umide di Macomer, Sardara, Sanluri, Quartu e Cagliari, dove si poteva arrivare in treno.
Notevole era l’importanza dell’originale imbarcazione usata dai palamitai (su fasso(n)i). Ciascuno di loro ne possedeva una, personalmente realizzata con grande maestria. Ciò per affermare le proprie capacità nell’esecuzione di quella che si poteva definire un’effimera opera d’arte. Veniva realizzata con fasci, da cui fasso(n)i, di scirpo (fe(n)u), una pianta palustre che un tempo cresceva abbondante nei pressi dello stesso stagno e in prossimità dei canali. Si raccoglieva e si faceva essiccare in determinati periodi dell’anno (maggio-giugno) e ciò garantiva alla barca un galleggiamento ideale, in grado di sopportare il peso anche di due persone, spesso padre e figlio, maggior resistenza all’acqua e quindi vita più lunga per l’imbarcazione medesima. Per otto mesi all’anno, is paramitaius potevano svolgere la propria attività nello stagno. Durante tutto questo periodo, che partiva dalla prima metà del mese di settembre (cabudanni), quando si rinnovavano in genere tutti i contratti, fino ad aprile, venivano imposte interruzioni alla pesca, sebbene i palamitai versassero un importante contributo in denaro all’anno (s’arrendu) per poter esercitare il loro lavoro, con il divieto assoluto dell’impiego di reti. Proprio per questo motivo si rendeva necessario per i pescatori rivolgersi direttamente a su meri ‘e pischera, vale a dire al padrone dello stagno, per ottenere una proroga dei termini contrattuali (pragontai porra), che in genere veniva accordata fino al 24 maggio, giorno della festa patronale di Santa Maria Assunta o anche fino al 13 giugno, giorno dei festeggiamenti di Sant’Antonio.
Ai palamitai veniva concessa anche un’altra possibilità per incrementare, se pur di poco, i loro guadagni. Potevano infatti utilizzare le fiocine (abarrudai) per catturare qualche muggine o pesci di minor pregio come le carpe. E per avere maggiore probabilità di riuscire nel loro intento lavoravano in gruppo (parànta su ballu), aprivano i balli in senso metaforico e in cerchio, per convergere verso il centro, battevano un piccolo tratto di stagno, quasi sempre vicino alle cannucce palustri o nei pressi dei fondali pietrosi ricchi di mercerella (groga), dove i pesci in genere cercavano riparo e quindi potevano essere presi con maggiore facilità.
Dopo l’intenso lavoro giornaliero, prima del meritato riposo si rendeva necessario tirare a secco la barca e i più giovani, allora, non perdevano occasione per aiutare i più anziani in segno di rispetto. Tutti i fasso(n)is venivano sollevati e sostenuti con l’ausilio dei remi tenendo la prua obbligatoriamente rivolta verso l’alto. Era l’unico modo per favorirne una più veloce asciugatura e prolungarne la durata.
La rivolta
Tale sistema organizzativo permetteva un’efficiente gestione del comparto, ma allo stesso tempo teneva in stallo il paese costringendolo ad un pesante immobilismo, con tzaracus, poigeris, bogheris e sciaigoteris schierati con i padroni, timorosi di perdere i privilegi o comunque il poco guadagno certo, e paramitaius e pescatori di frodo, spado(n)adoris, o scioperantis in una fase successiva, in posizione contraria. La situazione cominciò ad essere sempre meno tollerata fino a quando la legge regionale n. 39 del 1956 dichiarò aboliti i diritti feudali sulle acque interne. I pescatori cabraresi, punzecchiati anche dall’esempio dei loro colleghi di Marceddì, che avevano occupato le acque del loro stagno, pensarono ad un’azione dimostrativa dello stesso genere.
La rivolta partì dal basso, da chi non aveva nulla da perdere, visto che coloro che godevano di posizioni più favorevoli erano schierati con i padroni. Nel 1960 si decise per l’occupazione, dopo un primo fallimentare tentativo che aveva comunque richiesto molto coraggio, visto che si osò uscire allo scoperto, sfidando a viso aperto meris e tzaracus, a costo di essere ripetutamente denunciati con sentenze passate in giudicato, che prevedevano per la stragrande maggioranza di loro molti mesi o anni di carcere.
L’occupazione dello stagno segnò una tappa importante nella storia del paese: per la prima volta i pescatori, o almeno parte di essi, si sentirono davvero uniti, superando posizioni individualistiche e timori.
Sempre molto vicine e collaborative le donne, che ebbero un ruolo di fondamentale importanza nella lotta per la rivendicazione del diritto alla pesca per i loro uomini.
Solo nei primi anni Ottanta, lo stagno di Mar ‘e Pontis con le sue peschiere passerà definitivamente nelle mani della Regione Sardegna e sarà gestito da cooperative di pescatori, che con le loro coraggiose azioni posero fine al predominio padronale e alla secolare divisione piramidale.